Claudio Monteverdi

(1567-1643)

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Il ritorno d'Ulisse in patria

"Tragedia di lieto fine in in un prologo e tre atti, è stata rappresentata a Venezia nel 1640

. Il ritorno d'Ulisse in patria è un'opera di Claudio Monteverdi, su libretto di Giacomo Badoaro tratto dall'Odissea. Fu rappresentata per la prima volta al Teatro San Cassiano di Venezia nel febbraio 1641. I momenti lirici, come il lamento di Penelope, sola e desolata, hanno ispirato a Claudio Monteverdi le pagine più belle. La mediocrità del libretto ha invece in parte tarpato le ali al recitativo monteverdiano, qui più pesante rispetto a quello dei suoi capolavori operistici. Compare qui per la prima volta il martellato comico, espediente tecnico vocale consistente nell'attribuire a ciascuna nota musicale una sillaba; tale tecnica sarà utilizzata largamente anche da Rossini.

Alla Piccola Scala di Milano la prima è stata nel 1964 diretta da Piero Bellugi con Nicola Zaccaria. Nel Regno Unito la première è stata a Londra nel 1965, al Glyndebourne Festival Opera ebbe la prima nel 1972 diretta da Raymond Leppard con Janet Baker e nel King's Theatre di Edimburgo diretta da Nikolaus Harnoncourt nel 1978 per l'Opernhaus Zürich. Al Festival di Salisburgo ebbe la prima nel 1985 diretta da Jeffrey Tate con James King (tenore). Nel 2008 avviene la prima al Teatro Malibran per il Teatro La Fenice di Venezia".
(passo modificato da wikipedia. Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons Attribuzione)

Personaggi

Giove (Tenore), Nettuno (Basso), Minerva (Soprano), Giunone (Soprano), Ulisse (Tenore), Penelope (Soprano), Telemaco (Tenore), Antinoo (Basso), Pisandro (Tenore), Anfinomo (Contralto), Eurimaco (Tenore), Melanto (Soprano), Eumete (Tenore), Iro (Tenore), Ericlea (Contralto); Feaci, coro celeste e marittimo

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PROLOGO

[Sinfonia]

Humana Fragilità,Tempo, Fortuna, Amore
Humana Fragilità
Mortal cosa son io, fattura humana.
Tutto mi turba, un soffio sol m’abbatte.
Il Tempo che mi crea, quel mi combatte.
Tempo
Salvo è niente
dal mio dente.
Ei rode,
ei gode.
Non fuggite, o mortali,
ché, se ben zoppo, ho l’ali.

[Sinfonia prima ut supra]
Humana Fragilità
Mortal cosa son io, fattura humana.
Senza periglio invan ricerco loco,
ché frale vita è di Fortuna un gioco.
Fortuna
Mia vita son voglie,
le gioie, le doglie.
Son cieca, son sorda,
non vedo, non odo.
Ricchezze, grandezze
dispenso a mio modo.
Umana Fragilità
Mortal cosa son io, fattura humana.
Al Tiranno d’Amor serva sen giace
la mia fiorita età, verde e fugace.
[Ritornello]
Amore
Dio de’ Dei feritor, mi dice il mondo Amor.
Cieco saettator, alato, ignudo,
contro il mio stral non val difesa, o scudo.
Humana Fragilità
Misera son ben io, fattura humana.
Creder a ciechi e zoppi è cosa vana.
Tempo
Per me fragile
Fortuna
Per me misero
Amore
Per me torbido
Tempo, Fortuna, Amore
quest’uom sarà.
Tempo
Il Tempo ch’affretta,
Fortuna
Fortuna ch’alletta,
Amore
Amor che saetta,
Tempo, Fortuna, Amore
pietate non ha.
Fragile, misero, torbido, quest’huom sarà.

[Sinfonia ut supra]

(Finita la presente Sinfonia in tempo allegro s’incomincia la seguente mesta, alla bassa sin che Penelope sarà gionta in scena per dar principio al canto.)

ATTO PRIMO

Scena I

Reggia

Penelope, Ericlea

[Sinfonia]

(Questa Sinfonia si replica tante volte insin che Penelope arriva in scena.)
Penelope
Di misera Regina
non terminati mai dolenti affanni.
L’aspettato non giunge,
e pur fuggono gli anni.
La serie del penar è lunga, ahi troppo.
A chi vive in angoscie il Tempo è zoppo.
Fallacissima speme,
speranze non più verdi, ma canute,
all’invecchiato male
non promette più pace o salute.
Scorsero quattro lustri
dal memorabil giorno
in cui con sue rapine
il superbo Troiano
chiamò l’alta sua Patria alle ruine.
A ragion arse Troia,
poiché l’Amor impuro,
ch’è un delitto di foco,
si purga con le fiamme.
Ma ben contro ragione, per l’altrui fallo
condannata innocente,
de l’altrui colpe sono
l’afflitta penitente.
Ulisse accorto e saggio,
tu che punir gl’adùlteri ti vanti,
aguzzi l’armi e susciti le fiamme
per vendicar gl’errori
d’una profuga greca, e ’n tanto lasci
la tua casta consorte
fra nemici rivali
in dubbio de l’honore, in forse a morte.
Ogni partenza attende
desïato ritorno,
tu sol del tuo tornar perdesti il giorno.
Ericlea
Infelice Ericlea,
nutrice sconsolata,
compiagni il duol de la Regina amata.
Penelope
Non è dunque per me varia la sorte?
Cangiò forse Fortuna
la volubile ruota in stabil seggio?
E la sua pronta vela,
ch’ogn’human caso porta
fra l’incostanza a volo,
sol per me non raccoglie un fiato solo?
Cangian per altri pur aspetto in Cielo
le stelle erranti e fisse.
Torna, deh torna, Ulisse.
Penelope t’aspetta,
l’innocente sospira,
piange l’offesa, e contro
il tenace offensor né pur s’adira.
All’anima affannata
porto le tue discolpe,
acciò non resti
di crudeltà macchiato,
ma fabro de’ miei danni incolpo il Fato.
Così per tua difesa,
col destino, col Cielo
fomento guerre, e stabilisco risse.
Torna, deh torna, Ulisse.
Ericlea
Partir senza ritorno
non può stella influir.
Non è partir, non è,
ahi, che non è partir.
Penelope
Torna il tranquillo al mare,
torna il Zeffiro al prato,
l’Aurora, mentre al Sol fa dolce invito,
è un ritorno del dì, che è pria partito.
Tornan le brine in terra,
tornano al centro i sassi,
e con lubrici passi
torna all’oceano il rivo.
L’huomo qua giù, ch’è vivo,
lunge da’ suoi principi
porta un’alma celeste e un corpo frale.
Tosto more il mortale,
e torna l’alma in Cielo,
e torna il corpo in polve
dopo breve soggiorno.
Tu sol del tuo tornar perdesti il giorno.
Torna, ché mentre porti empie dimore
al mio fiero dolore,
veggio del mio morir l’hore prefisse.
Torna, deh torna, Ulisse.

Scena II

Melanto, Eurimaco

[Sinfonia]
Melanto
Duri, e penosi
son gl’amorosi
fieri desir.
Ma al fin son cari,
se prima amari
gl’aspri martir.
Ché s’arde un core, d’allegrezza è il foco,
né mai perde in amor chi compie il gioco.

(Sinfonia antecedente [et poi la seconda strofa])
Melanto
Chi pria s’accende
procelle attende
da un bianco sen.
Ma corseggiando
trova in amando
porto seren.
Si piange pria, ma al fin la gioia ha loco,
né mai perde in amor chi compie il gioco.
Eurimaco
Bella Melanto mia,
grazïosa Melanto,
il tuo canto è un incanto,
il tuo volto è magia.
Bella Melanto mia,
è tutto laccio in te ciò ch’altri ammaga,
ciò che laccio non è, fa tutto piaga.
Melanto
Vezzoso garruletto,
o, come ben tu sai
ingemmar le bellezze,
indorar a tuo pro d’un volto i rai.
Lieto vezzeggia pur. Son glorie mie
le tue dolci bugie.
Eurimaco
Bugia sarebbe s’io
lodando non t’amassi,
ch’il negar d’adorar
confessata deità
è bugia d’impietà.
Melanto, Eurimaco
(a due)
De’ nostri amor concordi
sia pur la fiamma accesa,
ch’amato il non amar arreca offesa.
Eurimaco
Né con ragion s’offende
colui che per offese amor ti rende.
Melanto
S’io non t’amo, cor mio, che sia di gelo
l’alma ch’ho in seno a tuoi begli occhi avante.
Eurimaco
S’in adorarti il cor non ho costante,
non mi sia stanza il mondo o tetto il cielo.
Melanto, Eurimaco
Dolce mia vita sei,
lieto mio ben sarai,
nodo sì bel non si disciolga mai.
Melanto
Come il desio m’invoglia,
Eurimaco, mia vita,
senza fren, senza morso
dar nel tuo sen alle mie gioie il corso.
Eurimaco
Come volentieri cangierei
questa reggia in un deserto
ove occhio curioso
a veder non giungesse i nostri errori,
Melanto, Eurimaco
(a due)
ch’ad un focoso petto
il rispetto è dispetto.
Eurimaco
Tu dunque t’affatica,
suscita in lei le fiamme.
Melanto
Ritenterò quell’alma
pertinace, ostinata,
ritoccherò quel core
ch’indïamanta l’honore.
Melanto, Eurimaco
(a due)
Dolce mia vita sei,
lieto mio ben sarai,
nodo sì bel non si disciolga mai.

Scena III

Reggia

Melanto, Penelope
Penelope
Donate un giorno, o Dei,
contento a desir miei.
Melanto
Cara amata Regina,
avveduta e prudente
per tuo sol danno sei.
Men saggia io ti vorrei.
A che sprezzi gl’ardori
de’ viventi Amatori
per attender conforti
dal cenere de’ morti?
Non fa torto chi gode a chi è sepolto.
L’ossa del tuo marito,
estinto, incenerito,
del tuo dolor non san poco, né molto.
E chi attende pietà da’ morti è stolto.
La fede e la costanza
son preclare virtù.
Le stima Amante vivo e non l’apprezza,
perch’è de’ sensi privo,
un huom che fu.
D’una memoria grata
s’appagano i defunti.
Stanno i vivi coi vivi in un congiunti.
Un bel viso fa guerra.
Il guerriero costume al morto spiace,
ché non cercan gli estinti altro che pace.
Langue sotto i rigori
de’ tuoi sciapiti amori
la più fiorita età.
Ma vedova beltà di te si duole,
ché dentro ai lunghi pianti
mostri sempre in acquario un sì bel sole.
Ama dunque, ché d’Amore
dolce amica è la beltà.
Dal piacer il tuo dolore
saettato caderà.
Penelope
Amor è un idol vano,
è un vagabondo nume,
all’incostanze sue non mancan piume.
Del suo dolce sereno
è misura il baleno. Un giorno solo
cangia il piacer in duolo.
Sono i casi amorosi
di Tesei e di Giasoni, oimè, son pieni
d’incostanza e rigore,
pene e morte e dolore.
Dell’amoroso Ciel splendori fissi
san cangiar in Giasoni anco gl’Ulissi.
Melanto
Perché Aquilone infido
turbi una volta il mar,
distaccarsi dal lido
animoso nocchier non dêe lasciar.
Sempre non guarda in Ciel torva una stella.
Ha calma ogni procella.
Ama dunque, ché d’Amore
dolce amica è la beltà.
Dal piacere il tuo dolore
saettato caderà.
Penelope
Non dêe di nuovo amar
chi misera penò,
torna stolta a penar chi prima errò.

Scena IV

I Feaci in mare

(Qui esce la Barca de’ Feaci, che conduce Ulisse che dorme, et perché non si desti si fa la seguente Sinfonia toccata soavemente sempre su una corda. Passano i Feaci in Nave e sbarcano Ulisse dormiente, lo pongono appresso l’antro delle Naiadi col suo bagaglio. Questa scena è muta accompagnata con Sinfonia e poi entra la Nave.)

[Sinfonia]

Scena V

Nettuno sorge dal mare, poi Giove in Cielo
Nettuno
Superbo è l’huom, et è del suo peccato
cagion, benché lontano, il Ciel cortese,
facile, ahi troppo, in perdonar l’offese.
Fa guerra col destin, pugna col Fato,
tutt’osa, tutt’ardisce l’humana libertate.
Indomita si rende,
e l’arbitrio de l’huom
col Ciel contende.
Ma se Giove benigno
i trascorsi de l’huom troppo perdona,
tenga egli a voglia sua nella gran destra
il fulmine otioso,
tengalo invendicato.
Ma non soffra Nettuno
col proprio dishonor l’human peccato.

[Sinfonia alta a 5]
Giove
(in Cielo)
Gran Dio de’ salsi flutti,
che mormori, e vaneggi
contro l’alta bontà del Dio sovrano?
Mi stabilì per Giove
la mente mia pietosa
più ch’armata la mano.
Questo fulmine atterra,
la pietà persuade,
fa adorar la pietade.
Ma non adora più che cade a terra.
Ma qual giusto desio d’aspra vendetta
furïoso ti muove
ad accusar l’alta bontà di Giove?
Nettuno
Hanno i Feaci arditi
contro l’alto voler del mio decreto,
han Ulisse condotto
in Itaca sua patria, onde rimane
e l’human ardimento
de l’offesa Deitade
ingannato l’intento.
Vergogna, e non pietade,
comanda ’l perdonar fatti sì rei.
Così di nome solo
son divini gli Dei.
Giove
(in Cielo)
Non fien discare al Ciel le tue vendette,
ché comune ragion ci tiene uniti.
Puoi da te stesso castigar gli arditi.
Nettuno
Hor già che non dissente
il tuo divin volere,
darò castigo al temerario orgoglio.
La nave lor andante
farò immobile scoglio.
Giove
(in Cielo)
Facciasi il tuo comando,
veggansi l’alte prove,
habbian l’onde il suo Giove.
E chi andando peccò pera restando.

Scena VI

Coro di Feaci in nave, poi Nettuno

[Sinfonia]
Coro di Feaci
(in nave)
In questo basso mondo
l’uomo puol quanto vuol.
Tutto fa, ché ’l ciel del nostro oprar pensier non ha.
Nettuno
Ricche d’un nuovo scoglio
sien quest’onde fugaci.
(Dopo mutata la nave segue.)
Imparino i Feaci in questo giorno
che l’humano vïaggio,
quand’ha contrario il Ciel non ha ritorno.

Scena VII

Ulisse si sveglia dal sonno
Ulisse
Dormo ancora, o son desto?
Che contrade rimiro?
Qual aria, oimé, respiro?
E che terren calpesto?
Dormo ancora, o son desto?
Chi fece in me, chi fece
il sempre dolce e lusinghevol Sonno
ministro de’ tormenti?
Chi cangiò il mio riposo in ria sventura?
Qual Deità de’ dormienti ha cura?
O Sonno, o mortal Sonno,
fratello della Morte altri ti chiama.
Solingo, trasportato,
deluso et ingannato,
ti conosco ben io, padre d’errori.
Pur degli errori miei son io la colpa,
ché se l’Ombra è del Sonno
sorella, o pur compagna,
chi si confida all’Ombra
perduto al fin contro ragion si lagna.
O Dei, sempre sdegnati,
Numi non mai placati,
contro Ulisse che dorme anco severi,
vostri divini Imperi
contro l’human voler sian fermi e forti,
ma non tolghino, oimé, la pace ai morti.
Feaci ingannatori,
voi pur mi prometteste
di ricondurmi salvo
in Itaca mia patria,
con le ricchezze mie, co’ miei tesori.
Feaci mancatori,
hor non so com’ingrati mi lasciaste
in questa riva aperta,
su spiaggia erma, e deserta,
misero, abbandonato,
e vi porta fastosi,
e per l’aure, e per l’onde,
così enorme peccato.
Se puniti non son sì gravi errori,
lascia, Giove, deh, lascia
de’ fulmini la cura,
ché la legge del caso è più sicura.
Sia delle vostre vele,
falsissimi Feaci,
sempre Borea inimico,
e sian qual piuma al vento, scoglio in mare
le vostre infide navi,
leggiere agli Aquiloni, all’aure gravi.

Scena VIII

Minerva, Ulisse

Minerva in habito da Pastorello esce con passi ordinati al suono della presente Sinfonietta

[Sinfonia]
Minerva
Cara e lieta gioventù,
che disprezza empio desir,
non dà a lei noia o martir
ciò che viene e ciò che fu.
[Ritornello ut supra]
Ulisse
(fra sé parla, e dice)
Sempre l’human bisogno il Ciel soccorre.
Quel giovinetto, tenero negli anni,
mal pratico d’inganni,
forse ch’el mio pensier farà contento,
che non ha frode in seno
chi non ha pelo al mento.
[Ritornello ut supra]
Minerva
Giovanezza è un bel tesor
che fa ricco in gioia un sen.
Per lei zoppo il Tempo vien,
per lei vola alato Amor.
Ulisse
Vezzoso pastorello,
deh, sovvieni un perduto
di consiglio e d’aiuto, e dimmi pria
di questa spiaggia, e questo porto il nome.
Minerva
Itaca è questa, in sen di questo mare,
porto famoso e spiaggia
felice, avventurata.
Faccia gioconda, e grata
a sì bel nome fai.
Ma tu come venisti, e dove vai?
Ulisse
Io greco sono et hor di Creta io vengo
per fuggir il castigo
d’homicidio eseguito.
M’accolsero i Feaci e m’han promesso
in Elide condurmi.
Ma dal cruccioso mar, dal vento infido
fummo a forza cacciati in questo lido.
Sin qui, pastor, hebbi nemico il caso.
Poi sbarcato al riposo
per veder quieto il mar, secondi i venti,
colà m’addormentai sì dolcemente,
ch’io non udii, nè vidi
de’ Feaci crudeli la furtiva partenza,
ond’io rimasi
con le mie spoglie in su l’arena ignuda,
isconosciuto e solo.
E ’l sonno che partì lasciommi il duolo.
Minerva
Ben lungamente addormentato fosti,
ch’ancor ombra racconti e sogni narri.
È ben accorto Ulisse,
ma più saggia è Minerva.
Tu dunque, Ulisse, i miei precetti osserva.
Ulisse
Chi crederebbe mai
le Deità vestite in human velo?
Si fanno queste mascherate in Cielo?
Grazie ti rendo, o protettrice Dea.
Ben so che per tuo amore
furon senza periglio i miei perigli.
Hor consolato seguo
i tuoi saggi consigli.
Minerva
Incognito sarai,
non conosciuto andrai, sin che tu vegga
dei Proci tuoi rivali
la sfacciata baldanza,
Ulisse
O fortunato Ulisse.
Minerva
di Penelope casta
l’immutabil costanza.
Ulisse
O fortunato Ulisse.
Minerva
Or t’adacqua la fronte
nella vicina fonte,
ch’anderai sconosciuto,
in sembiante canuto.
Ulisse
Ad obbedirti vado, indi ritorno.
Minerva
Io vidi per vendetta
incenerirsi Troia, hora mi resta
Ulisse ricondur in Patria, in Regno.
D’un’oltraggiata Dea questo è lo sdegno.
Quinci imparate voi, stolti mortali,
al litigio divin non poner bocca.
Il giudizio del Ciel a voi non tocca,
ché son di terra i vostri tribunali.
Ulisse
(trasformato in un vecchio)
Eccomi, saggia Dea.
Questi peli che guardi
sono di mia vecchiaia
testimoni bugiardi.
Minerva
Hor poniamo in sicuro
queste tue spoglie amate
dentro quell’antro oscuro
delle Naiadi Ninfe al Ciel sacrate.
Minerva, Ulisse
(a due)
Ninfe, serbate
le gemme e gl’ori,
spoglie e tesori,
tutto serbate,
Ninfe sacrate.

Scena IX

Minerva e Ulisse mentre l’altre Ninfe portano all’antro il bagaglio
Coro di ninfe
Bella diva, eccoci pronte
al tuo cenno, al tuo voler;
e quest'antro, e quella fonte
spruzza e s'apre a tuo piacer.
Itaca lieta si mostra, sì,
al bel ristoro d'Ulisse un dì!
Minerva
Tu d’Aretusa al fonte intanto vanne,
ove il Pastor Eumete,
tuo fido antico servo,
custodisce la gregge. Ivi m’attendi
in sin che pria di Sparta io ti conduca
Telemaco, tuo figlio.
Poi d’eseguir t’appresta il mio consiglio.
Ulisse
O fortunato Ulisse,
fuggi del tuo dolor
l’antico error,
lascia il pianto,
dolce canto
dal tuo cor lieto disserra.
Non si disperi più mortale in terra.
[Ritornello]
O fortunato Ulisse,
cara vicenda.
Si può soffrir
hor diletto, hor martir, hor pace, hor guerra.
Non si disperi più mortale in terra.

ATTO SECONDO

Scena I

Reggia

Penelope, Melanto
Penelope
Donate un giorno, o dèi
contento a' desir miei.
Melanto
Cara amata regina,
avveduta e prudente
per tuo sol danno sei:
men saggia io ti vorrei.
A che sprezzi gli ardori
dei viventi amatori
per attender conforti
dal cenere de' morti?
Non fa torto chi gode a chi è sepolto.
L'ossa del tuo marito
estinto, incenerito,
del tuo dolor non san poco né molto;
e chi attende pietà da morto è stolto.
La fede e la costanza
son preclare virtù; le stima amante
vivo, e non l'apprezza
perché de' sensi privo
un uom che fu. D'una memoria grata
s'appagano i defunti,
stanno i vivi coi vivi in un congiunti.
Un bel viso fa guerra,
il guerriero costume al morto spiace,
ché non cercan gli estinti altro che pace.
Langue sotto i rigori
de' tuoi sciapiti amori
la più fiorita età,
ma vedova beltà di te si duole,
ché dentro ai lunghi pianti
mostri sempre in acquario un sì bel sole.
Ama dunque, ché d'amore
dolce amica è la beltà.
Dal piacere il tuo dolore
saettato caderà.
Penelope
Amor è un idol vano,
è un vagabondo nume,
all'incostanze sue non mancan piume;
del suo dolce sereno
è misura il baleno. Un giorno solo
cangia il piacer in duolo.
Sono i casi amorosi
di Tesei e di Giasoni ohimè son pieni:
incostanza e rigore,
pene e morte e dolore,
dell'amoroso ciel splendori fissi
san cangiar in Giason anche gli Ulissi.
Melanto
Perché Aquilone infido
turbi una volta il mar
distaccarsi dal lido
animoso nocchier non dée lasciar?
Sempre non guarda in ciel
torva una stella,
ha calma ogni procella.
Ama dunque, ché d'amore
dolce amica è la beltà.
Dal piacere il tuo dolore
saettato caderà.
Penelope
Non dée di nuovo amar
chi misera penò:
torna stolta a penar chi prima errò.

Scena II

Eumete solo
Eumete
Come mal si salva un regio amante
da sventure e da mali.
Meglio i scettri regali
che i dardi de’ pastor imperla il pianto.
Seta vestono ed ori
i travagli maggiori.
È vita più sicura
della ricca ed illustre
la povera ed oscura.
Colli, campagne e boschi,
se stato human felicità contiene,
in voi s’annida il sospirato bene.
Herbosi prati, in voi
nasce il fior del diletto,
frutto di libertade in voi si coglie,
son delizie dell’huom le vostre foglie.

Scena III

Iro, Eumete.
Iro
Pastor d’armenti può
prati e boschi lodar,
avvezzo nelle mandre a conversar.
Quest’herbe che tu nomini
sono cibo di bestie e non degli huomini.
Colà tra Regi io sto,
tu fra gl’armenti qui.
Tu godi e tu conversi tutto ’l dì
amicitie selvatiche,
io mangio i tuoi compagni,
pastor, e le tue pratiche.
Eumete
Iro, gran mangiatore,
Iro, divoratore,
Iro, loquace,
mia pace non perturbar.
Corri, corri a mangiar,
corri, corri a crepar.

Scena IV

Eumete, poi Ulisse in sembianza di vecchio
Eumete
Ulisse generoso.
Fu nobile intrapresa
lo spopolar, l’incenerir cittadi.
Ma forse il Ciel irato,
nella caduta del Troiano regno,
volle la vita tua
per vittima al suo sdegno.
Ulisse
Se del nomato Ulisse
tu vegga in questo giorno
desïato il ritorno,
accogli questo vecchio
povero, c’ha perduto
ogni mortal aiuto
nella cadente età, nell’aspra sorte.
Le sìi la tua pietà scorta alla morte.
Eumete
Hospite mio sarai,
cortese albergo havrai. Sono i mendici
favoriti del Ciel, di Giove amici.
Ulisse
Ulisse, Ulisse è vivo.
La patria lo vedrà,
Penelope l’avrà.
Ch’il fato non fu mai d’affetto privo.
Maturano il destin le sue dimore,
credilo a me, pastore.
Eumete
Come lieto t’accoglio,
mendica deità.
Il mio lungo cordoglio
da te vinto cadrà.
Seguimi, amico, pur.
Riposo avrai sicur.

Scena V

Telemaco e Minerva sul carro

[Sinfonia]
Telemaco
Lieto cammino,
dolce vïaggio.
Passa il carro divino
come che fosse un raggio.
Minerva, Telemaco
(a due)
Gli Dei possenti
navigan l’aure,
solcano i venti.
Minerva
Eccoti giunto alle paterne ville,
Telemaco prudente.
Non ti scordar giammai de’ miei consigli,
ché se dal buon sentier travia la mente,
incontrerai perigli.
Telemaco
Periglio invan mi grida
se tua bontà m’affida.

Scena VI

Boschereccia

Eumete, Ulisse,Telemaco
Eumete
O gran figlio d’Ulisse.
È pur ver che tu torni
a serenar della tua madre i giorni.
E pur sei giunto al fine
di tua casa cadente
a riparar l’altissime ruine.
Fugga il cordoglio,
fugga, e cessi il pianto.
Facciam, o peregrino,
all’allegrezze nostre honor col canto.
Eumete, Ulisse
(a due)
Verdi piagge, al lieto giorno
rabbellite herbette, e fiori,
scherzin l’aure con gli amori,
ride il ciel al bel ritorno.
Telemaco
Vostri cortesi auspici a me son grati.
Manchevole piacer però m’alletta,
ch’esser paga non puote alma ch’aspetta.
Eumete
Questo che tu qui miri,
sovra gli homeri stanchi
portar gran peso d’anni, e mal involto
da ben laceri panni, egli m’accerta
che d’Ulisse il ritorno
fia di poco lontan da questo giorno.
Ulisse
Pastor, se nol fia ver, ch’al tardo passo
si trasformi in sepolcro il primo sasso,
e la morte, che meco
amoreggia d’intorno,
hora porti a miei dì l’ultimo giorno.
Eumete, Ulisse
(a due)
Dolce speme i cor lusinga,
lieto annunzio ogn’alma alletta,
s’esser paga non poté alma ch’aspetta.
Telemaco
Vanne pur tu veloce,
vanne, Eumete, alla reggia, e del mio arrivo
fa’ ch’avvisata sia
la genitrice mia.

Scena VII

Telemaco, Ulisse

Scende dal Cielo un raggio di foco, onde s’apre la terra e Ulisse si sprofonda.
Telemaco
Che veggio, oimé, che miro?
Questa terra vorace i vivi inghiotte,
apre bocche e caverne
d’humano sangue ingorde, e più non soffre
del vïator il passo,
ma la carne dell’huom tranghiotte il sasso.
Che prodigi son questi?
Dunque, Patria, apprendesti
a divorar le genti?
Rispondono anco ai vivi i monumenti?
Così, dunque, Minerva
alla Patria mi doni?
Quest’è Patria comune,
se di questo ragioni.
Ma se presta ho la lingua,
ho la memoria pigra.
Qui il pellegrin c’hor hora,
per dar fede a menzogne
chiamò sepolcri et invitò la morte,
dal giusto Ciel punito
restò qui seppellito. Ah, caro Padre,
dunque in modo sì strano
m’avvisa il tuo morire
il Ciel di propria mano?
Ahi, che per farmi guerra
fa stupori e miracoli la terra.

[Sinfonia]

(Qui risorge Ulisse in sua propria forma.)
Telemaco
Ma che nuovi portenti, oimé, rimiro?
Fa cambio, fa permùta
con la morte la vita?
Non sia più che più chiami
questa caduta amara,
se col morir ringiovanir s’impara.
Ulisse
Telemaco, convienti
cangiar le meraviglie in allegrezze,
ché se perdi il mendico, il padre acquisti.
Telemaco
Benché Ulisse si vanti
di prosapia celeste,
trasformarsi non puote huomo mortale.
Tanto Ulisse non vale.
O scherzano gli Dei,
o pur mago tu sei.
Ulisse
Ulisse, Ulisse sono.
Testimonio è Minerva,
quella che te portò per l’aria a volo.
La forma cangio a me come le aggrada,
perché sicuro e sconosciuto io vada.
Telemaco
O padre sospirato,
genitor glorïoso,
t’inchino, o mio diletto.
Filïale dolcezza
a lagrimar mi sforza.
Ulisse
O Figlio desïato,
pegno dolce amoroso,
ti stringo.
Paterna tenerezza
il pianto in me rinforza.
Telemaco, Ulisse
(a due)
Mortal, tutto confida e tutto spera,
ché quando il Ciel protegge,
Natura non ha legge.
L’impossibile ancor spesso s’avvera.
Ulisse
Vanne alla madre, va’.
Porta alla reggia il piè.
Sarò tosto con te,
ma pria canuto il pel ritornerà.

ATTO TERZO

Scena I

Reggia

Melanto, Eurimaco
Melanto
Eurimaco, la donna,
insomma, ha un cor di sasso.
Parola non la muove,
priego invan la combatte.
Dentro del mal d’amore
sempre tenace ha l’alma.
O di fede, o d’orgoglio,
in ogni modo è scoglio.
Nemica, o pur amante,
non ha di cera il cor, ma di diamante.
Eurimaco
E pur udii sovente
la poetica schiera
cantar donna volubile e leggiera.
Melanto
Ho speso invan parole, indarno prieghi
per condur la Regina a nuovi amori.
L’impresa è disperata,
odia, non ché d’amor, l’esser amata.
Eurimaco
Peni chi brama,
stenti chi vuol,
goda fra l’ombre
chi ha in odio il sol.
Melanto
Penelope trionfa
nella doglia e nel pianto.
Fra martìri e contenti
vive lieta Melanto:
ella in pene si nutre, io fra diletti
amando mi giocondo.
Fra sì varii pensier più bello è il mondo.
Eurimco
Godendo, ridendo
si lacera il duol.
Melanto
Amiamo, godiamo
e dica chi vuol.

Scena II

Antinoo, Anfinomo, Pisandro, Penelope
Antinoo
Sono l’altre Regine
coronate de’ servi e tu d’amanti.
Tributan questi Regi
al mar di tua bellezza un mar di pianti.
Antinoo, Anfinomo, Pisandro
(a tre)
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
Penelope
Non voglio amar, no, no,
ch’amando penerò.
Antinoo, Anfinomo, Pisandro
(a tre)
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
Penelope
Cari tanto mi siete
quanto più ardenti ardete.
Ma non m’appresso all’amoroso gioco
che lunge è bel più che vicino il foco.
Anfinomo
La pampinosa vite
se non s’abbraccia al faggio
l’autun non frutta e non fiorisce il maggio.
E se sfiorita resta
ogni mano la coglie,
ogni piè la calpesta.
Pisandro
Il bel cedro odoroso
vive, se non s’incalma,
senza frutto, spinoso.
Ma se s’innesta poi
figliano frutti e fior gli spini suoi.
Antinoo
L’edera che verdeggia,
ad onta anco del verno
d’un bel smeraldo eterno,
se non s’appoggia perde
tra l’herbose ruine il suo bel verde.
Antinoo, Anfinomo, Pisandro
(a tre)
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
Penelope
Non voglio amar, non voglio.
Come sta in dubbio un ferro
se fra due calamite
da due parti divise egli è chiamato,
così sta in forse il core
nel tripartito Amore.
Ma non può amar chi non sa, chi non può
che pianger e penar.
Mestitia e dolor
son crudeli nemici d’Amor.
Pisandro, Anfinomo, Antinoo
(a tre)
All’allegrezze dunque, al ballo, al canto.
Rallegriam la Regina.
Lieto cor ad amar tosto s’inchina.
[Ritornello]

Scena III

Qui escono otto Mori che fanno un ballo greco, cantato con i seguenti versi
Mori
Dame in amor belle e gentil
amate allor che ride april;
non giunge al sen gioia, o piacer
se tocca il crin l'età senil
dunque al gioir, lieto al goder
dame in amor belle e gentil.
Vaga nel spin la rosa sta,
ma non nel gel, bella è beltà:
perde il splendor torbido ciel
ciglio in rigor non è più bel.

Scena IV

Eumete, Penelope (i Proci a parte)
Eumete
Apportator d’alte novelle vengo.
È gionto, o gran Regina,
Telemaco tuo Figlio,
e forse non fia vana
la speme ch’io t’arreco.
Ulisse, il nostro Rege,
il tuo consorte, è vivo,
e speriam non lontano
il suo bramato arrivo.
Penelope
Per sì dubbie novelle
o s’addoppia il mio male,
o si cangia il tenor delle mie stelle.

Scena IV

Antinoo, Anfinomo, Pisandro, Eurimaco
Antinoo
Compagni, udiste? Il vostro
vicin rischio mortale
vi chiama a grandi e risolute imprese.
Telemaco ritorna, e forse Ulisse.
Questa reggia da voi
violata, ed offesa,
dal suo signor aspetta
tarda, bensì, ma prossima vendetta.
Chi d’oltraggiar fu ardito,
neghittoso non resti
in compir il delitto. In sin ad hora
fu il peccato dolcezza.
Hora il vostro peccar fia sicurezza,
che lo sperar favori è gran pazzia
da chi s’offese pria.
Pisandro, Anfinomo
(a due)
N’han fatto l’opre nostre
inimici d’Ulisse.
L’oltraggiar l’inimico unqua disdisse.
Antinoo
Dunque l’ardir s’accresca,
e pria ch’Ulisse arrivi
Telemaco vicin togliam dai vivi.
Pisandro, Anfinomo, Antinoo
(a tre)
Sì, sì, de’ grand’amori
sono figli i gran sdegni.
Quel fere i cori e quest’abbatte i regni.

(Qui vola sopra ’l capo dei Proci un’Aquila.)
Eurimaco
Chi dall’alto n’ascolta,
hor ne risponde, amici.
Mute lingue di Ciel sono gli auspici.
Mirate, oimé, mirate
del gran Giove l’augello
ne predice ruine,
ne promette flagello.
Muova al delitto il piede,
chi giusto il Ciel non crede.
Anfinomo, Pisandro, Antinoo
(a tre)
Crediam al minacciar del Ciel irato,
ché, chi non teme il Cielo
raddoppia il suo peccato.
Antinoo
Dunque, prima che giunga
il filial soccorso,
per abbatter quel core,
facciam ai doni almen grato ricorso,
perch’ha la punta d’or lo stral d’Amore.
Eurimaco
L’oro sol, l’oro sia
l’amorosa magia.
Ogni cor femminil, se fosse pietra,
tocco dall’or si spetra.
Pisandro, Anfinomo, Antinoo
(a tre)
Amor è un’armonia,
sono canti i sospiri,
ma non si canta ben se l’or non suona.
Non ama chi non dona.

Scena V

Boschereccia

Ulisse, poi Minerva in abito maestro
Ulisse
Perir non può chi tien per scorta il Cielo,
chi ha per compagno un Dio.
A grand’imprese, è ver, volto son io.
Ma fa peccato grave
chi difeso dal Ciel il mondo pave.
Minerva
O coraggioso Ulisse.
Io farò che proponga
la tua casta consorte
giuoco che a te fia gloria
e sicurezza e vittoria e a Proci morte.
Allor che l’arco tuo ti giunge in mano
e strepitoso tuon fiero t’invita,
saetta pur ché la tua destra ardita
tutti conficcherà gli estinti al piano.
Io starò teco, e con celeste lampo
atterrerò l’humanità soggetta.
Cadran vittime tutti alla vendetta,
ché i flagelli del Ciel non hanno scampo.
Ulisse
Sempre è cieco il mortale.
Ma allor si dêe più cieco
chi ’l precetto divin devoto osserva.
Io ti seguo, Minerva.

Scena VII

Eumete, Ulisse
Eumete
Io viddi, o peregrin, de’ Proci amanti
l’ardir infermarsi,
l’ardore gelar,
negli occhi tremanti
il cor palpitar.
Il nome sol d’Ulisse
quell’alme ree trafisse.
Ulisse
Godo anch’io, né so come,
rido né so perché.
(Qui ride da dovero in sin a qua.)
Tutto gioisco, ringiovanisco,
ben lieto affé.
Eumete
Tosto c’havrem con povera sostanza
i corpi invigoriti, andrem veloci.
Vedrai di quei feroci
fieri i costumi, i gesti
impudenti, inhonesti.
Ulisse
Non vive eterna l’arroganza in terra,
la superbia mortal tosto s’abbatte,
ch’il fulmine del Ciel gli Olimpi atterra.

ATTO QUARTO

Scena I

Reggia

Telemaco, Penelope
Telemaco
Del mio lungo vïaggio i torti errori
già vi narrai, Regina.
Hora tacer non posso
della veduta Greca
la bellezza divina.
M’accolse Helena bella,
io mirando stupii,
dentro a quei raggi immerso,
che di Paridi pieno
non fosse l’universo.
Alla Figlia di Leda
un sol Paride, dissi,
è poca preda.
Povere fur le stragi,
furon lievi gl’incendi a tanto foco.
Ché se non arde un mondo, il resto è poco.
Io viddi in que’ begl’occhi
dell’incendio troiano
le nascenti scintille,
le bambine faville.
E ben prima potea,
astrologo amoroso,
da quei giri di foco
profetar fiamme e indovinar ardori
da incenerir città non men che cori,
Paride, è ver, morì.
Paride ancor gioì.
Con la vita pagar convenne l’onta,
ma così gran piacere
una morte non sconta.
Si perdoni a quell’alma il grave fallo.
La bella Greca porta
nel suo volto beato
tutte le scuse del troian peccato.
Penelope
Beltà troppo funesta, ardor iniquo
di rimembranza indegno,
disseminò lo sdegno
non tra i fiori d’un volto,
ma fra i strisci d’un angue.
Ché mostro è quell’amor che nuota in sangue.
Memoria così trista
disperda pur l’oblio.
Vaneggia la tua mente,
folleggia il tuo desio.
Telemaco
Non per vana follia
Helena ti nomai, ma perché essendo
nella famosa Sparta
circondato, improvviso,
dal volo d’un augel destro e felice,
Helena, ch’è maestra
dell’indovine scienze e degl’augúri,
tutta allegra mi disse
ch’era vicino Ulisse, e che dovea
dar morte ai Proci e stabilirsi il Regno.

Scena II

Cortile regio dove si prepara un convito

Antinoo, Eumete, Iro, Ulisse, e detti
Antinoo
Sempre, villano Eumete,
sempre t’ingegni
di perturbar la pace,
d’intorbidar la gioia,
oggetto di dolore,
ritrovator di noia.
Hai qui condotto un infesto mendico,
un noioso importuno,
che con sue voglie ingorde
non farà che guastar le mense liete.
Eumete
L’ha condotto Fortuna
alle case d’Ulisse,
ove pietà s’aduna.
Antinoo
Rimanga ei teco a custodir la gregge,
e qui non venga, dove
civile nobiltà comanda e regge.
Eumete
Civile nobiltà non è crudele,
né puote anima grande
sdegnar pietà, che nasce
de’ regi tra le fasce.
Antinoo
Arrogante plebeo.
Insegnar opre eccelse
a te, vil huom, non tocca,
né dêe parlar di Re villana bocca.
E tu, pìcaro indegno,
fuggi da questo regno.
Iro
Pàrtiti, movi il piè.
Se sei qui per mangiar son pria di te.
Ulisse
Huomo di grosso taglio,
di larga prospettiva,
benché canuto ed invecchiato sia,
non è vile però l’anima mia.
Se tanto mi concede
l’alta bontà regale,
trarrò il corpaccio tuo sotto ’l mio piede,
mostruoso animale.
Iro
E che sì, e che sì.
Rimbambito guerriero, vecchio importuno,
e che sì, che ti strappo
i peli della barba ad uno, ad uno.
Ulisse
Voglio perder la vita
se di forza e di vaglia
io non ti vinco or or, sacco di paglia.
Antinoo
Vediam, Regina, in questa bella coppia
d’una lotta di braccia
stravagante duello.
Telemaco
Il campo io t’assicuro,
pelegrin sconosciuto.
Iro
Anch’io ti do franchigia,
combattitor barbuto.
Ulisse
La gran disfida accetto,
cavaliero panciuto.
Iro
(che fa alla lotta)
Su, su, dunque, su, su,
alla ciuffa, alla lotta, su, su.
(Segue la lotta nella quale dopo breve contrasto Ulisse atterra Iro.)
Son vinto, oimé.
Antinoo
Tu, vincitor, perdona
a chi si chiama vinto.
Iro, puoi ben mangiar, ma non lottar.
Penelope
Valoroso mendico, in corte resta,
honorato e sicuro,
ché non è sempre vile
chi veste manto povero ed oscuro.

Scena III

Pisandro e Anfinomo sopraggiungono
Pisandro
Generosa Regina,
Pisandro a te s’inchina, e ciò che diede
larga e prodiga sorte,
dona a te, per te aduna
sua novella fortuna.
Questa regal corona
che di comando è segno
ti lascia in testimon di ciò che dona.
Dopo il dono del core
non ha dono maggiore.
Penelope
Anima generosa,
prodigo cavaliere,
ben sei d’impero degno,
che non merita men chi dona un regno.
Anfinomo
Se t’invoglia il desio
d’accettar regni in dono,
ben so donar anch’io,
ed anch’io rege sono.
Queste pompose spoglie,
questi regali ammanti
confessano superbi
i miei ossequi, i tuoi vanti.
Penelope
Nobil contesa e generosa gara,
ove amator discreto
l’arte del ben amar donando impara.
Antinoo
Il mio cor che t’adora,
non ti vuol sua Regina.
L’anima che s’inchina ad adorarti,
Deità vuol chiamarti,
e come Dea t’incensa coi sospiri,
fa vittime i desiri,
e con quest’ori
t’offre voti ed honori.
Penelope
Non andran senza premio
opre cotanto eccelse.
Ché donna quando dona
se non è prima accesa allor s’accende,
e donna quando toglie,
se non è prima resa allor s’arrende.
Hor t’affretta, Melanto, e qui m’arreca
l’arco del forte Ulisse e la faretra.
E chi sarà di voi
con l’arco poderoso
saettator più fiero,
havrà d’Ulisse e la moglie e l’Impero.
Telemaco
Ulisse, e dove sei?
Che fai? Che non ripari
le tue perdite e in un gl’affanni miei?
Penelope
Ma che, ma che promise
bocca facile, ahi, troppo
discordante dal core?
Numi del Cielo, s’io ’l dissi,
snodaste voi la lingua, apriste i detti.
Saran tutti del Cielo e delle Stelle
prodigiosi effetti.
Pisandro, Anfinomo, Antinoo
(a tre)
Lieta, soave gloria,
grata e dolce vittoria.
Cari pianti
degli amanti,
cor fedele, costante sen,
cangia ’l torbido in seren.
Penelope
Ecco l’arco d’Ulisse,
anzi l’arco d’Amor
che dêe passarmi il cor.
Pisandro, a te lo porgo.
Chi fu il primo a donar,
sia ’l primo a saettar.

[Sinfonia]
Pisandro
Amor, se fosti arciero in saettarmi,
hor da’ forza a quest’armi,
ché vincendo dirò:
s’un arco mi ferì,
un arco mi sanò.
(Pisandro s’apparecchia di caricar l’arco e non può.)
Il braccio non vi giunge,
il polso non v’arriva.
Ceda la vinta forza,
col non poter anco ’l desio s’ammorza.

[Sinfonia ut supra]
Anfinomo
Amor, picciolo nume,
non sa di saettar,
se trafigge i mortali,
son le saette sue sguardi, non strali.
Ch’a nume pargoletto
negano d’obbedir l’arme di Marte.
Tu, fiero Dio, le mie vittorie affretta,
il trionfo di Marte a te s’aspetta.
(Qui finge di caricar l’arco e non può. Tratanto si pausa coll’istrumento e poi si seguita.)
Com’ intrattabile,
com’ indomabile
l’arco si fa.
Quel petto frigido,
protervo e rigido
per me sarà.

[Sinfonia ut supra]
Antinoo
Cedan Marte ed Amore
ove impera beltà.
Chi non vince in suo honor non vincerà.
Penelope, m’accingo
in virtù del tuo bello all’alta prova.
(S’affatica a caricar l’arco e non può.)
Virtù, valor non giova.
Forse forza d’incanto
contende il dolce vanto.
Ah, ch’egli è vero ch’ogni cosa fedele
ad Ulisse si rende,
e sin l’arco d’Ulisse Ulisse attende.
Penelope
Son vani, oscuri pregi
i titoli de’ regi.
Senza valor, il sangue,
ornamento regale,
illustri scettri a sostener non vale.
Chi simile ad Ulisse
virtude non possiede,
de’ tesori d’Ulisse è indegno herede.
Ulisse
Gioventude superba
sempre valor non serba,
come vecchiezza humìle
ad ognor non è vile.
Regina, in queste membra
tengo un’alma sì ardita
ch’alla prova m’invita.
Il giusto non eccedo,
rinunzio il premio, e la fatica io chiedo.
Penelope
Concedasi al mendico
la prova faticosa.
Contesa glorïosa,
contro petti virili un fianco antico,
ché tra rossori involti,
darà ’l foco d’Amor, vergogna ai volti.
Ulisse
Questa mia destra humìle
s’arma a tuo conto, o Cielo.
Le vittorie apprestate, o sommi Dei,
s’a voi son cari i sacrifizi miei.
(Carica l’arco.)
Pisandro, Anfinomo, Antinoo
(a tre)
Meraviglie, stupor, prodigi estremi.
(Giove qui tuona.)
Ulisse
Giove nel suo tuonar grida vendetta.
Così l’arco saetta.

[Sinfonia da guerra]

(Qui un tocco di guerra da tutti gli strumenti)

(Apparisce Minerva in macchina.)
Ulisse
Minerva altri rincora, altri avvilisce.
Così l’arco ferisce.
Alle morti, alle stragi, alle ruine.

ATTO QUINTO

Scena I

Iro solo (parte ridicola)
Iro
O dolor, o martir che l’alma attrista.
O mesta rimembranza
di dolorosa vista.
Io vidi i Proci estinti,
i Proci, i porci furo uccisi.
Ah, ch’io perdei
le delizie del ventre e della gola.
Chi soccorre il digiun,
chi lo consola?
O flebile parola.
I Proci, Iro, perdesti.
I Proci, i padri tuoi.
Sgorga pur quanto vuoi
lagrime amare, e meste,
ché padre è chi ti ciba e chi ti veste.
Chi più della tua fame
satollerà le brame?
Non troverai chi goda
empir del vasto ventre
l’affamate caverne.
Non troverai chi rida

(Qui cade in riso naturale.)

del ghiotto trionfar della tua gola.
Chi soccorre il digiun,
chi lo consola?
Infausto giorno a mie ruine armato.
Poco diansi mi vinse un vecchio ardito,
hor m’abbatte la fame,
dal cibo abbandonato.
L’hebbi già per nemica,
l’ho distrutta, l’ho vinta.
Hor troppo fora
vederla vincitrice.
Voglio uccider me stesso e non vo’ mai
ch’ella porti di me trionfo e gloria.
Chi si toglie al nemico ha gran vittoria.
Coraggioso mio core,
vinci il dolore, e pria
ch’alla fame nemica egli soccomba
vada il mio corpo a disfamar la tomba.

Scena II

Deserto con Ombre de' proci, Mercurio
Mercurio
Dell'umana tragedia è questo il fine.
Regni, bellezza, amore
nel transito dissolve,
lo spirto vola e non riman che polve.
La morte è dèa possente,
abbatte ogni vivente
né ria speranza giova.
Chi non crede all'esempio
al fin non può negar fede alla prova.
Voi già proci superbi or placid'ombre,
prima principi illustri, or alme oscure
per man d'Ulisse il forte
gran ministro del ciel estinti foste,
ed or dopo goduta
la vagabonda libertà di morte
andrete profondati ove chi regna
a incrudelir insegna.
Chiaman le vostre colpe
precipizi d'averno,
voragini d'inferno,
ch'a' perfidi e crudeli
quando l'eterno danno ha il ciel prefisso
s'apre così l'abisso.

(Qui s'apre scena infernale e si profondano l'Ombre de' proci)
Mercurio
Imparate mortali,
sono di vostri brevissimi piaceri
i castighi immortali.
Stolti, sin che vivete,
vostri umani diletti
hanno la reggia in polve.
Mentre godono sol la carne, e i sensi,
e poi che morti siete
passa allo spirto un immortal
duro cambio infelice
gioir farfalla e tormentar fenice.
Vostra vita è un passaggio,
non ha stato e fermezza;
se mai giunge bellezza
tramonta allor, ch'appena mostra un saggio.
Vivi cauto, o mortale,
che cammina la vita e 'l tempo ha l'ale,
e dove ingorda speme
vivendo non s'acquieta
dell'umana pazzia questa è la meta.

Scena III

Reggia

Melanto, Penelope
Melanto
E quai nuovi rumori,
e che insolite stragi,
e che tragici amori.
Chi fu, chi fu l’ardito,
che osò con nuova guerra
la pace intorbidar c’hai tu negli occhi,
e trar disfatti a terra
quei templi ch’ad Amor furon eretti
in quei focosi petti?
Penelope
Vedova amata, vedova Regina,
nuove lagrime appresto.
In somma all’infelice
ogni amor è funesto.
Melanto
Così all’ombre de’ scettri anco pur sono
malsicure le vite?
Vicino alle corone
son le destre esecrande anco più ardite.
Penelope
Moriro i Proci, e queste
da lor chiamate stelle
furon di quelle morti
assistenti facelle.
Melanto
Penelope, il castigo
dell’importante fatto
non consigliar che con lo sdegno e l’ira,
ché maestate offesa
esser giusta non può se non s’adira.
Penelope
Dell’occhio la pietate
si risolve all’eccesso,
ma concitar il core
a sdegno et a dolor non m’è concesso.

Scena IV

Eumete, e dette
Eumete
Forza d’occulto affetto
raddolcisce il tuo petto.
Chi con un arco solo,
isconosciuto, diede
a cento morti il duolo,
quel forte e quel robusto
che domò l’arco e fé volar gli strali,
colui che i Proci insidïosi e felli
valoroso trafisse,
rallègrati, Regina, egli era Ulisse.
Penelope
Sei buon pastor, Eumete,
se persuaso credi
contro quello che vedi.
Eumete
Il canuto, l’antico,
il povero, il mendico,
che coi Proci superbi
coraggioso attaccò mortali risse,
rallègrati, Regina, egli era Ulisse.
Penelope
Credulo è il volgo e sciocco,
è la tromba mendace
della fama fallace.
Eumete
Ulisse io vidi, sì,
Ulisse è vivo, è qui.
Penelope
Relator importuno,
consolator nocivo.
Eumete
Dico che Ulisse è qui.
Io stesso il vidi e ’l so.
Non contenda il tuo no con il mio sì.
Ulisse è vivo, è qui.
Penelope
Io non contendo teco
perché sei stolto e cieco.

Scena V

Telemaco, e detti
Telemaco
È saggio Eumete, è saggio.
È ver quel che racconta.
Ulisse, a te consorte ed a me padre,
ha tutte uccise le nemiche squadre.
Il comparir sotto mentito aspetto,
sotto vecchia sembianza,
arte fu di Minerva, e fu suo dono.
Penelope
Troppo egli è ver che gli huomini qui in terra
servon di gioco agl’immortali Dei.
Se ciò credi ancor tu, lor giuoco sei.
Telemaco
Volle così Minerva
per ingannar con le sembianze finte
gl’inimici d’Ulisse.
Penelope
Se d’ingannar gli Dei prendon diletto,
chi far fede mi puote
che non sia mio l’inganno,
se fu mio tutto il danno?
Telemaco
Protettrice de’ Greci
è, come sai, Minerva,
e più che gli altri Ulisse a lei fu caro.
Penelope
Non han tanto pensiero
gli Dei, là sù nel cielo,
delle cose mortali.
Lasciano ch’arda il foco e agghiacci il gelo.
Figlian le cause lor piaceri e mali.
Telemaco
Togliti in pace il vero.
Eumete
Io lo dirò,
ti seguirò.

Scena VI

Marittima

Minerva, Giunone
Minerva
Fiamma è l’ira, o gran Dea,
foco è lo sdegno.
Noi, sdegnose ed irate,
incenerito habbiam di Troia il regno,
offese da un troian, ma vendicate.
Il più forte fra greci ancor contende
co’l destin, con il fato,
Ulisse addolorato.
Giunone
Per vendetta che piace
ogni prezzo è leggiero.
Vada il troiano impero
anco in peggio di polvere fugace.
Minerva
Dalle nostre vendette
nacquero in lui gli errori,
delle stragi dilette
son figli i suoi dolori.
Convien al nostro nume
il vindice salvar, placar gli sdegni
del Dio de’ salsi regni.
Giunone
Procurerò la pace,
ricercherò il riposo
d’Ulisse glorioso.
Minerva
Per te, del sommo Giove
e sorella, e consorte,
s’aprono nove in ciel divine porte.

Scena VII

Marittima

Giove, Nettuno, Coro in cielo, Coro marittimo e dette
Giunone
Gran Giove, alma de’ Dei, Dio delle menti,
mente dell’Universo,
tu che ’l tutto governi e tutto sei,
inchina le tue grazie a prieghi miei.
Ulisse troppo errò,
troppo, ahi, troppo soffrì,
tornalo in pace un dì.
Fu divin il voler che lo destò.
Ulisse troppo errò.
Giove
Per me non havrà mai
vota preghiera Giuno,
ma placar pria conviensi
lo sdegnato Nettuno.
Odimi, o Dio del mar.
Fu scritto qui, dove il destin s’accoglie,
dell’eccidio troiano il fatal punto.
Hor, ch’al suo fine il destinato è giunto,
sdegno ozioso un gentil petto invoglia.
Fu ministro del Fato Ulisse il forte.
Soffrì, vinse, pugnò, campion celeste.
Per lui, mentre di cenere si veste,
cittadina di Troia, errò la Morte.
Nettun, pace, o Nettun, Nettun, perdona
il suo duolo al mortal ch’afflitto il rese.
Ecco, scrive il destin le sue difese.
Non è colpa dell’huom se ’l Cielo tuona.
Nettuno
Se ben quest’onde frigide,
se ben quest’onde gelide
mai sentono l’ardor di tua pietà,
nei fondi algosi ed infimi,
nei cupi acquosi termini
il decreto di Giove anco si sa.
Contro i Feaci arditi e temerari
mio sdegno si sfogò.
Pagò il delitto pessimo
la nave che restò.
Viva felice pur,
viva Ulisse sicur.
Coro in cielo
Giove amoroso
fa il Ciel pietoso
nel perdonar.
Coro marittimo
Ben ch’abbia il gelo
non men del Cielo
pietoso il mar.
Coro in cielo, Coro marittimo
Prega, mortal, deh, prega,
ché sdegnato e pregato un Dio si piega.
Giove
Minerva, hor fia tua cura
d’acquetar i tumulti
de’ sollevati Achivi,
ché per vendetta degli estinti Proci
pensano portar guerra
all’Itacense terra.
Minerva
Rintuzzerò quei spirti,
smorzerò quegli ardori,
comanderò la pace,
Giove, come a te piace.

Scena VIII

Reggia

Ericlea sola
Ericlea
Ericlea, che vuoi far?
Vuoi tacer, o parlar?
Se parli, tu consoli.
Obbedisci, se taci.
Sei tenuta a servir,
obbligata ad amar.
Vuoi tacer, o parlar?
Ma ceda all’obbedienza la pietà.
Non si dêe sempre dir ciò che si sa.

[Sinfonia]

Medicar chi languisce, o, che diletto.
Ma che ingiurie e dispetto
scuoprir l’altrui pensier.
Bella cosa talvolta è un bel tacer.
È ferità crudele
il poter con parole
consolar chi si duole, e non lo far.
Ma del pentirsi al fin
assai lunge è il tacer, più che ’l parlar.

[Ritornello ut supra]

Bel segreto taciuto
tosto scoprir si può.
Una sol volta detto
celarlo non potrò.
Ericlea, che farai?
Tacerai tu?
In somma un bel tacer mai scritto fu.

[Ritornello ut supra]

Scena IX

Penelope,Telemaco, Eumete, e detta
Penelope
Ogni vostra ragion sen porta ’l vento.
Non ponno i vostri sogni
consolar le vigilie
dell’anima smarrita.
Le favole fan riso e non dan vita.
Telemaco, Eumete
(a due)
Troppo incredula, troppo.
Troppo ostinata, troppo.
È più che vero, di vero è più
che ’l vecchio arciero Ulisse fu.
Telemaco
Eccolo che sen viene,
e la sua forma tiene.
Eumete
Ulisse, Ulisse egli è.
Telemaco
Eccolo affé.

Scena X e ultima

Ulisse in sua forma, e detti
Ulisse
O delle mie fatiche
meta dolce e soave,
porto caro, amoroso,
dove corro al riposo.
Penelope
Férmati, Cavaliero,
incantator o mago.
Di tue finte mutanze io non m’appago.
Ulisse
Così del tuo consorte,
così dunque t’appressi
ai lungamente sospirati amplessi?
Penelope
Consorte io sono, ma del perduto Ulisse,
né incantesimi o magie
perturberan la fé, le voglie mie.
Ulisse
In honor de’ tuoi rai
l’eternità sprezzai,
volontario cangiando e stato, e sorte.
Per serbarmi fedel son giunto a morte.
Penelope
Quel valor che ti rese
ad Ulisse simìle,
care mi fa le stragi
degli amanti malvagi.
Questo di tua bugia
il dolce frutto sia.
Ulisse
Quell’Ulisse son io,
delle ceneri avanzo,
residuo delle morti,
degli adùlteri e ladri
fiero castigator, e non seguace.
Penelope
Non sei tu ’l primo ingegno,
che con nome mentito,
tentasse di trovar comando o Regno.
Ericlea
Hor di parlar è tempo.
È questo Ulisse,
casta e gran donna, io lo conobbi all’hora
che nudo al bagno venne, ove scopersi
del feroce cinghiale
l’honorato segnale.
Ben ti chieggio perdon, se troppo tacqui.
Loquace, femminil, garrula voce
per comando d’Ulisse
con fatica lo tacque e non lo disse.
Penelope
Creder ciò che desio m’insegna Amore,
serbar costante il sen comanda honore.
Dubbio pensier che fai?
La fé negata ai prieghi
del buon custode Eumete,
di Telemaco il figlio,
alla vecchia nutrice anco si nieghi.
Ch’il mio pudico letto
sol d’Ulisse è ricetto.
Ulisse
Del tuo casto pensiero io so ’l costume.
So che ’l letto pudico,
che, tranne Ulisse solo, altro non vide,
ogni notte da te s’adorna e copre
con un serico drappo
di tua mano contesto, in cui si vede
co’l virginal suo coro
Diana effigiata.
M’accompagnò mai sempre
memoria così grata.
Penelope
Hor sì ti riconosco, hor sì ti credo
antico possessore
del combattuto core.
Honestà mi perdoni,
dono tutte ad Amor le sue ragioni.
Ulisse
Sciogli la lingua, deh, sciogli
per allegrezza i nodi,
un sospir, un oimé la voce snodi.

[Aria]
Penelope
Illustratevi o cieli,
rinfioratevi o prati, aure gioite.
Gl’augelletti cantando,
i rivi mormorando hor si rallegrino.
Quell’herbe verdeggianti,
quell’onde sussurranti hor si consolino,
già ch’è sorta felice
dal cenere troian la mia fenice.
Ulisse, Penelope
(a due)
Sospirato mio sole.
Rinnovata mia luce.
Porto quieto e riposo.
Bramato, sì, ma caro.
Per te gl’andati affanni
a benedir imparo.
Non si rammenti
più de’ tormenti,
tutto è piacer.
Fuggan dai petti
dogliosi affetti,
tutto è goder.
Del piacer, del goder
venuto è ’l dì.
Sì, vita, sì, sì, core, sì, sì.

Fine dell'opera

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